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Catalina de Erauso, “La monaca alfiere” – parte 2

Avevamo lasciato Catalina mentre navigava come mozzo su una nave diretta alle Americhe.

Il primo punto che toccò fu Punta de Araya, oggi parte del Venezuela, dove partecipò ad uno scontro con una ben armata flotta pirata olandese che venne sconfitta. Da lì ripartirono per Cartagena de Indias e Nombre de Dios (nell’attuale Panama), dove diversi marinai morirono a causa del maltempo. Finalmente imbarcarono l’argento ed erano pronti a tornare in Spagna quando Catalina uccise suo zio e gli rubò 500 pesos, scendendo poi a terra e dicendo, senza scomporsi, agli altri marinai che lui l’aveva mandata a negoziare affari

Non ci racconta perché uccise lo zio, ma Catalina nonostante fosse una bugiarda, una ladra e una litigiosa, era anche una donna senza paura, che non si tirava indietro se doveva difendere il suo onore. Forse lo zio si era accorto del suo stratagemma?

A Panama iniziò a lavorare con Juan de Urquiza, un ricco mercante con il quale partì per il porto di Paita (oggi Perù), dove l’uomo aveva un grosso carico da imbarcare. 

Il mestiere del marinaio era molto precario e nel porto di Manta (oggi Ecuador), un forte temporale fece colare a picco la nave. Catalina dovette nuotare per salvare se stessa e anche  il mercante, mentre il resto dell’equipaggio annegava. 

Il padrone la ringraziò, intestandole un negozio, una casa, un guardaroba e una grossa somma di denaro, oltre a tre schiavi al suo esclusivo servizio. 

Ma nel Seicento la vita non poteva trascorrere tranquilla. Un giorno, mentre Catalina assisteva a una commedia teatrale, un ragazzo si sedette davanti bloccandole la vista allo spettacolo, lei si lamentò prima con le buone maniere (scrive lei), ma poi le cose degenerarono. Il ragazzo minacciò di tagliarle la faccia con un pugnale se non se ne fosse andata. L’incidente sarebbe rimasto un litigio senza importanza, se questo non si fosse presentato giorni dopo al negozio di Catalina per provocarla. 

La basca affilò le armi e si lanciò all’assalto dell’uomo, nonostante fosse accompagnato da un amico. Dopo averli feriti entrambi, Catalina si rifugiò nella chiesa chiedendo sacro asilo. Il magistrato locale però non si lasciò intimorire dal luogo e la trascinò in prigione ai ceppi. Tuttavia il mercante per cui lavorava, intercedette a suo favore e in una situazione tipica dei romanzi picareschi, offrì a Catalina di sposare una dama del suo servizio, imparentata con la moglie ferito e porre così fine alla disputa.

Catalina rifiutò categoricamente il matrimonio che avrebbe rivelato infine il suo sesso. 

Dovette quindi allontanarsi di nuovo. Aiutata dal padrone che le doveva la vita, partì per Lima, capitale dell’allora Vicereame del Perù dove, grazie a una lettera di raccomandazione, gestì per il console maggiore della città un negozio per nove mesi, ma venne scoperta “tra le gambe” della cognata del console e venne licenziata. 

Decise quindi di arruolarsi agli ordini del capitano Gonzalo Rodríguez  e, accompagnata da milleseicento uomini, partì per conquistare l’ultima roccaforte che si opponeva al potere spagnolo in Sud America, l’ultima frontiera con la natura selvaggia: il Cile.

Nella città di Concepción, la soldatessa basca venne a sapere che uno dei suoi fratelli, Miguel de Erauso, che aveva attraversato l’oceano quando lei aveva solo due anni, era il segretario del governatore. Il fratello non  la riconobbe, cosa abbastanza logica, ma fu felice di ritrovare un compaesano e quindi divennero amici fino a che,  tre anni dopo, a causa di un litigio, forse per un altro intrigo di gonne, fu esiliata in terra di indios. 

Fu qui che Catalina mostrò il suo lato più oscuro e divenne famosa per massacrare indigeni. Si guadagnò la reputazione di essere coraggiosa e abile con le armi. Si distinse nella celebre battaglia di Valdivia e ricevette il grado di alfiere, colui che comandava la compagnia in assenza del capitano e aveva il compito di difendere con la vita la bandiera. Infatti in una successiva battaglia morì il capitano e lei portò alla vittoria la compagnia.

Il suo carattere litigioso e la sua passione per le carte, cosa tra l’altro comune tra i soldati spagnoli dell’epoca, rovinarono però la sua carriera nell’esercito e la frustrazione la portò a causare ulteriori danni. 

Uccise il revisore generale della capitale cilena, per cui restò rinchiusa in una chiesa per sei mesi. Dopo essere stata rilasciata, uccise in duello suo fratello Miguel e a questo punto non le restò che la fuga e attraversò le Ande raggiungendo l’Argentina. 

Fu trovata in punto di morte, portata a un villaggio e curata. Come non si accorsero che era donna, lei non lo svela, ci racconta invece che promise di sposare la figlia della vedova che l’aveva accolta nella sua fattoria durante la convalescenza e promise la stessa cosa anche alla nipote del canonico. 

Dovette fuggire anche questa volta per non sposare nessuna di loro.

Dopo varie vicende si dedicò al traffico di grano e bestiame, costretta per l’ennesima volta a rifugiarsi in una chiesa a causa di zuffe provocate dal gioco d’azzardo, uccise un altro individuo. Fu condannata a morte e salvata all’ultimo minuto dalla deposizione di un altro condannato. Restò altri cinque mesi prigioniera a causa di un duello con un marito geloso. A La Paz, fu nuovamente condannata a morte per un altro crimine e fuggì a Cuzco, dove in una casa da gioco venne insultata da un famoso furfante chiamato “il nuovo Cid“: scuro di pelle, peloso e grande come un orso. 

Nulla di nuovo per Catalina: l’ennesimo perdente che la offende. 

Lei conficcò un pugnale nella mano del Cid inchiodandola al tavolo. Costui, tra gli schizzi di sangue, chiamò a raccolta quattro amici. Colpendolo al petto, Catalina scoprì che il farabutto portava una maglia di ferro e lui approfittò dello sconcerto per trafiggere alla schiena Catalina dandola per morta. Ma il Cid impallidì quando vide alzarsi la monaca alfiere e lo apostrofò: “Perro, todavia vives?”         La basca sferrò un colpo  di lama dal basso che gli entrò nella bocca dello stomaco e lo uccise.

Nuovamente in punto di morte la donna rivelò il suo grande segreto al confessore che avvisò il vescovo, il quale, dopo aver ascoltato in silenzio e senza battere ciglio la lunga confessione di Catalina, scoppiò in lacrime.

Un esame da parte di un gruppo di levatrici stabilì che era vero: si trattava di una donna e che era anche vergine. (Nel 1992, nella biblioteca universitaria di Saragozza, è stato ritrovato il documento firmato da quattro ostetriche che riconosceva la verginità di Catalina de Erauso.)

Credo che quest’ultima condizione la elevasse a donna purissima, non importando la scia di morte che si portava appresso. Il vescovo la protesse e la mandò in Spagna. 

Fu ricevuta dal re Filippo IV, che mantenne il suo grado militare e le permise di usare il suo nome maschile concedendole una pensione di 800 scudi per i suoi servizi alla Corona nel Capitanato Generale del Cile. La storia delle sue avventure si diffuse in tutta Europa e Catalina si recò anche a Roma, dove la sua visita fu un vero evento. Papa Urbano VIII, la ricevette in udienza e la autorizzò a continuare a vestirsi da uomo. 

Nel 1630 si stabilì nella Nuova Spagna, dove morì. Non esiste documentazione che possa dimostrare chiaramente la sua data esatta o il luogo della morte.

Il busto che presentiamo qui sopra è stato a lei dedicato nella città di Orizaba, Messico, dove forse è stata sepolta.

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